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Un grande uomo In evidenza

Nell’epoca in cui la figura del padre sbiadisce, dopo essere stata attaccata, bruciata sulle barricate e poi lasciata un po’ in disparte, ci sono uomini che ci piace chiamare, con gratitudine, padri. Un padre non è chi ha tutte le risposte, ma chi non smette di farsi domande. Un padre sa ammettere, anche davanti ai propri figli, di aver sbagliato, quando succede; e questo non gli toglie dignità e autorevolezza, anzi. Un padre tiene al bene dei propri figli più che al proprio. Si lascia interrogare, non fa preferenze. Soprattutto, un padre desidera che i figli siano in armonia tra loro, e siano liberi. Nella società senza padri, Zygmunt Bauman è stato un padre.

La sua sociologia è stata potente perché è sempre partita dall’uomo concreto, dalla sua esperienza di vita; per poi tornare, attraverso l’analisi delle condizioni di contesto, alla gente comune, a cui si è sempre sforzato di parlare. Non per ottenere un effimero successo, ma per il profondo senso di responsabilità che lo ha sempre guidato nel suo lavoro intellettuale: proprio questa capacità di stare il rapporto all’esperienza umana è, secondo lui, ciò che più caratterizza la sociologia, che altro non è che una riflessione qualificata sulla nostra comune condizione. Così, è stato quest’uomo ironico e sempre più sottile, che si portava addosso tutto il Novecento – la questione ebraica sorta con il nazismo e vissuta dalla amatissima moglie Janina nel ghetto di Varsavia; la Seconda guerra mondiale e la speranza accesa dal comunismo; la successiva critica alle contraddizioni insanabili di quel sistema, che si è rovesciato nel suo contrario, fino ad accettare, nei primi anni 60, l’esilio inglese; l’esplosione della protesta giovanile e operaia alla fine degli anni 60 – a sapere leggere meglio di chiunque altro il cambiamento di fine secolo, con cui ancora oggi ci troviamo a fare i conti.

Da Avvenire.it

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