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Domenica della Carità In evidenza

DOMENICA DELLA CARITÀ

30 ottobre

«Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.  Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». 

 

Mt 25, 35-40

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Cantieri Sinodali In evidenza

L’incontro di Gesù con Marta e Maria nella casa di Betania, raccontato nel Vangelo di Luca, sarà icona per il secondo anno del Cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa italiana. «I cantieri di Betania» è il titolo del breve testo preparato dalla Cei per indicare «prospettive» necessarie per vivere questa nuova tappa del percorso sinodale.

Il Documento, approvato dal Consiglio permanente straordinario del 5 luglio, è preceduto da una introduzione del cardinale presidente Matteo Zuppi. Si tratta di un testo, scrive l’arcivescovo di Bologna, che «è frutto proprio della sinodalità». Perché «nasce dalla consultazione del popolo di Dio, svoltasi nel primo anno di ascolto (la fase narrativa), strumento di riferimento per il prosieguo del Cammino che intende coinvolgere anche coloro che ne sono finora restati ai margini». Viene diffuso in piena estate, «perché così abbiamo modo di impostare il cammino del prossimo anno». E ancora «lo sappiamo: a volte sarà faticoso, altre coinvolgente, altre ancora gravato dalla diffidenza che “tanto poi non cambia niente”, ma siamo certi che lo Spirito trasformerà la nostra povera vita e le nostre comunità e le renderà capaci di uscire, come a Pentecoste, e di parlare pieni del suo amore».

Il testo ricorda che nel maggio 2021, rispondendo all’invito di Papa Francesco, le Chiese in Italia si sono messe in cammino, avviando un percorso sinodale che ha avuto inizio con l’anno pastorale 2021-2022. Così l’apertura del Cammino sinodale in tutte le diocesi italiane è stata celebrata il 17 ottobre dello scorso anno.

«I cantieri sinodali rilanciano le priorità individuate per il secondo anno del Cammino. È utile ribadire che questo resta un tempo di ascolto e non di letture sistematiche e di risposte pastorali, a cui saranno invece dedicate le successive fasi, sapienziale e profetica. È certo un ascolto “orientato”, per poter raccogliere narrazioni utili a proseguire il cammino; un ascolto che si fa riflessione, in una circolarità feconda tra esperienza e pensiero che comincia ad acquisire gli strumenti con cui costruire le novità chieste dallo Spirito. Alla base rimane il lavoro svolto durante il primo anno e la domanda fondamentale del Sinodo universale: “Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, cammina insieme: come questo ‘camminare insieme’ si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro ‘camminare insieme’”?».

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Arte contemporanea: Biennale di Lione In evidenza

Biennale di Lione:

un monumentale elogio della fragilità

 

Dopo il salto di un anno a causa della pandemia, torna la Biennale di Lione, la più importante manifestazione dedicata all’arte contemporanea in Francia. E lo fa con una edizione, la numero 16 (fino al 31 dicembre), di grande interesse. Curata da Sam Bardaouil e Till Fellrath, direttori dell’Hamburger Bahnhof, il museo nazionale di arte contemporanea di Berlino, e responsabili del Padiglione francese alla Biennale in corso a Venezia, ha per titolo “Manifesto of fragility”, un “manifesto della fragilità” per immaginare, come scrivono i curatori, «un mondo in cui la vulnerabilità non è più considerata come un segno di debolezza bensì come un fondamento dell’emancipazione». La fragilità, insomma, come un sintomo vitale, una chiave di lettura del reale e della storia contro le narrazioni hard-edged. È evidente come lo spunto derivi dall’esperienza del Covid-19, che ha messo l’umanità (almeno quella della parte di mondo ricca e industrializzata, perché per l’altra resta un’esperienza comune) di fronte a paure sepolte. Ma Bardaouil e Fellrath sono riusciti a far uscire la riflessione dalla cronaca per portarla su piani molteplici, a loro volta declinati in una struttura espositiva concentrica e stratificata. La Biennale di Lione si articola in tre grandi e solidi capitoli che procedono, come in una spirale logaritmica, dal singolo alla comunità alla condizione globale lungo assi temporali e geografici che si incardinano in quelli che legano con un filo di seta Lione e Beirut e loro reciproche storie. La scelta può apparire curiosa se non anche forzata (Sam Bardaouil è libanese e certamente c’è il desiderio di poter raccontare un’esperienza personale) ma alla prova dei fatti regge nella misura in cui una storia particolare, come ogni narrazione riuscita, riesce a farsi universale. Il primo “strato”, al Mac, il museo di arte contemporanea, è costituito dal virtuosistico racconto delle “Molte vite e morti di Louise Brunet”, figura di giovane donna pescata dagli archivi lionesi che, dopo aver partecipato alla révolte des canuts, gli operai dell’industria tessile, finisce in prigione e quindi dopo quattro anni si trova su una nave per il Libano, dove un imprenditore di Lione sta impiantando un setificio. Sappiamo che anche lì si ribella alle condizioni di vita umilianti ma poi di lei si perdono le tracce. L’oscura Louise Brunet diventa un archetipo, una maschera che (come una sorta di Orlando o di Zelig) attraversa epoche e società, divenendo di volta in volta una donna nigeriana in fuga dall’Expo lionese del 1894, dove è messa in mostra in uno pseudoetnologico villaggio africano, o un artista omosessuale che muore di Aids in un ospedale di New York nel 1992. Sei microstorie allo stesso tempo vere e inventate, raccontate attraverso il detournement di opere che arrivano dai più vari musei lionesi o realizzate dagli artisti invitati, vite insignificanti per la “grande storia”, e anzi spesso vittime degli ingranaggi della macchina sociale e del potere, che emergono per un tratto dall’oblio in virtù di una ostinata forza fragile. Il secondo strato, sempre al Mac, è un’ampia mostra-dossier, questa invece di assoluto e rigoroso taglio storico, sulla stagione artistica, culturale e di impegno politico degli Sessanta a Beirut fino allo scoppio della guerra civile (e con una coda sull’esplosione che nel 2020 ha distrutto il porto, un terzo della città e messo in ginocchio l’intera economia).

Una città e un paese, il Libano, nella loro perifericità si dimostrano dunque centrali per raccontare l’esperienza di una fragilità complessa e insieme quella della necessità di resistenza e testimonianza che investono costantemente, non solo sotto il profilo materiale, il mondo contemporaneo. Il terzo strato (“Un monde d’une promesse infinie”) si allarga all’universalità della condizione umana. Lo fa con una diaspora urbana: oltre alla Usines Fagor, un complesso industriale abbandonato di 29mila metri quadrati, sono coinvolte una decina di altre sedi (talvolta non senza una certa ridondanza nei lavori esposti) tra cui – in una volontà di confronto con la storia in nome di una perenne contemporaneità – il (bellissimo) museo archeologico gallo-romano di Lugdunum, i locali quattrocenteschi del Musée Gadagne, quelli déco del Musée Guimet, già sede del museo di storia naturale, svuotati e chiusi da 15 anni, la basilica della Fourvière, le cui vetrate e gli ex voto dedicati agli interventi della Vergine nella vita della città e dei singoli testimoniano, nelle parole dei curatori, l’esperienza della fragilità e della resistenza. Se nelle tappe precedenti il racconto è soprattutto collettivo, con le opere che passano in secondo piano rispetto al quadro curatoriale, emergono qui i contributi dei singoli artisti. Tra gli altri colpiscono, alle Fagor, la tensione tragica del lavoro di Markus Schinwald, la memoria duttile e ingombrante di Lucia Tallová, l’antimemoriale del colombiano Daniel Otero Torres, gli arazzi con le macerie di Ailbhe Ní Bhriain, il panorama grigio (un memento moridi spirito davvero fiammingo) di Hans Op de Beeck, la danza robotica del corpo centenario di Omar Rajeh e Mia Habis, la mise en abyme abitativa di Pedro Gómez-Egaña, il video di Annika Kahrs in cui, attraverso musica e performance, nello spazio chiesa abbandonata dei canuts si ricostruisce la memoria di una comunità in cui lavoro e sacro si intrecciano dialetticamente. Nel Musée Guimet, infine, la grande installazione di Ugo Schiavi in cui la natura, ormai ibridata con la tecnologia, rompendo le vetrine fuoriesce in una dimensione post-storica, ribadendo come l’apparente fragilità nassconda una resistenza elastica e la capacità di adattamento. Il risultato è una mostra politica senza essere ideologica, sociale senza ricatti emotivi, solida nella sua poetica della fragilità. Con un paradosso, però, tutto questo avviene attraverso l’edizione più ambiziosa delle Biennali lionesi. Già con l’ingresso nelle gigantesche dismesse officine Fagor nel 2019 si era assistito a uno scatto espansivo. Se la dimensione diffusa era già presente (senza contare la tradizionale presenza nel territorio con il programma di Veduta) ora il salto di scala urbano è esplosivo, così come si è più che triplicato il numero artisti, che dalla sessantina del 2019 sono passati ai 202 di questa edizione, provenienti da 40 paesi diversi: basti pensare che a Venezia sono 213 da 58 paesi. Sotto tutti gli aspetti è una Biennale monumentale e sono evidenti la volontà e lo sforzo da parte della direzione di Isabelle Bertolotti di mandare un segnale di prestigio e, perché no, di potenza (tutt’altro che fragile) per collocare la Biennale nello scenario postpandemico dell’arte contemporanea internazionale.

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Il Sacerdote In evidenza

«Le vesti sacre del Sommo Sacerdote sono ricche di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele impressi sopra le pietre di onice che adornavano le spalle dell’efod dal quale proviene la nostra attuale casula: sei sopra la pietra della spalla destra e sei sopra quella della spalla sinistra (cfr. Es 28, 6-14). Anche nel pettorale erano incisi i nomi delle dodici tribù d’Israele (cfr. Es 28,21). Ciò significa che il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti! […] L’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge “le periferie”. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido ... e il cuore amaro. Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, “le periferie” dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede. La gente ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: “preghi per me, padre, perché ho questo problema”, “mi benedica, padre”, “preghi per me”, sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio. […] Così bisogna uscire a sperimentare la nostra unzione, il suo potere e la sua efficacia redentrice: nelle “periferie” dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni. […] Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà; però, se sappiamo infrangere la sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti. È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia appare chiaramente come pura grazia, in questo mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione - e non la funzione -, e risultano feconde le reti gettate unicamente nel nome di Colui del quale noi ci siamo fidati: Gesù. […] Cari sacerdoti, Dio Padre rinnovi in noi lo Spirito di Santità con cui siamo stati unti, lo rinnovi nel nostro cuore in modo tale che l’unzione giunga a tutti, anche alle “periferie”, là dove il nostro popolo fedele più lo attende ed apprezza. La nostra gente ci senta discepoli del Signore, senta che siamo rivestiti dei loro nomi, che non cerchiamo altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quest’olio di gioia che ci è venuto a portare Gesù, l’Unto. Amen».

Papa Francesco 28 marzo 2013

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